Una pianta che non deve stare lì. Giustizia ambientale e autoctonia nella Sardegna meridionale

Autori

  • Greca N. Meloni

DOI:

https://doi.org/10.14672/ada2021177465-84

Parole chiave:

Apicoltura, autoctonia, Sardegna, eucalyptus, biomasse

Abstract

Ai confini di un Parco Naturale protetto nella Sardegna meridionale, in un’area recentemente interessata da incendi e alluvioni, l’intensa attività di taglio di eucalitteti per la locale centrale a biomasse sta comportando la perdita di una parte consistente del patrimonio boschivo. Mentre per gli apicoltori questi tagli comportano la scomparsa del proprio bacino nettarifero, altri la considerano una occasione per liberarsi di “una pianta che non deve stare lì”.
A partire da una ricerca etnografica sull’apicoltura svolta con un approccio multimodale, il contributo intende riflettere su come alcune concezioni della “natura” (ad es. l’opposizione tra specie autoctone e specie alloctone) producano localmente valutazioni positive di pratiche forestali che con altre piante verrebbero lette come disastri ambientali. Queste riflessioni, collocate in una prospettiva multispecie, sembrano far emergere i limiti e le aporie di alcune concezioni di “giustizia ambientale” nell’era del Capitalocene.

Introduzione

È passato circa un mese dal mio rientro in Sardegna. In piena pandemia da Covid-19, il governo ha appena allentato le restrizioni e io fremo dalla voglia di concedermi qualche ora all’aria aperta per allontanare l’esperienza del lockdown e della quarantena “fiduciaria”. Con la bicicletta percorro le strade sterrate che corrono lungo i boschi di eucalitti, disposti in quadrati regolari che si innestano nel paesaggio agricolo fortemente antropizzato. Conosco ogni sentiero di questa zona, l’ho percorso più volte fin da quando ero bambina, a piedi, in bicicletta o in macchina, da sola o insieme a mio padre, per piacere o per lavoro. È una giornata piuttosto calda e decido di imboccare una strada alla ricerca delle temperature più miti, all’ombra degli eucalitti che costeggiano il percorso. Improvvisamente mi accorgo che gli alberi non ci sono più, i loro fusti sono stati tagliati e adagiati in enormi cataste che attendono di essere sbriciolate sul posto. A ogni pedalata aumenta il mio disagio e la forte sensazione di smarrimento nell’osservare un paesaggio che non riconosco, nel quale non riesco più a orientarmi. Adesso, da qui, il mio sguardo corre veloce verso il golfo, le pale eoliche sembrano maestose e la città è più vicina. Il suolo sembra rivoltato, devastato dal continuo via vai di mezzi pesanti che lavorano senza sosta per tagliare e accatastare i lunghi fusti di eucalipto.

Nel 2018, in seguito alla messa in funzione della centrale a biomasse del polo industriale di Cagliari, la ditta incaricata dell’approvvigionamento in loco di prodotti forestali (Contratto quadro 2017, p. 2) ha iniziato la sua attività concentrandosi prevalentemente sui rimboschimenti dell’azienda agricola Baveno1, collocata nel comune di Bau Arena, al confine con il polo industriale di Cagliari e prospicente l’area protetta del Monte Arcosu2. Nel 2019, la morte dell’anziana proprietaria sembrava aver bloccato le attività: tuttavia queste riprendono in estate, in seguito all’incendio del 7 luglio 2019 che ha distrutto circa 150 ettari di boschi e coltivi (L’Unione Sarda 07/07/19). A rendere le operazioni di contenimento del fuoco particolarmente difficoltose è stata la viabilità della zona fortemente compromessa in seguito all’alluvione che colpì la Sardegna nell’ottobre del 2018 (Lissia 2018). Il punto da cui sembra essere partito l’incendio, all’interno di un boschetto di eucalitti, dista pochi metri dal letto di un corso d’acqua a carattere torrentizio e affluente del Cixerri che negli ultimi decenni più volte ha devastato il territorio circostante (Lai 2020, pp. 102-11).

Si tratta dunque di un’area estremamente fragile dal punto di vista idrogeologico (PAI, Distretto 25, 2007, Tav. 7), suscettibile agli incendi (tre solo negli ultimi 4 anni), e molto complessa perché collocata a ridosso di un’area protetta e al confine con la zona industriale di Cagliari.

Il paesaggio quasi desertico percorso dalle macchine cippatrici ha suscitato un profondo senso di disagio tra i frequentatori abituali dell’area, principalmente operai agricoli e pastori dell’azienda agricola Baveno e particolarmente tra gli apicoltori per i quali il taglio rappresenta la privazione di una delle più importanti risorse nettarifere per la produzione di miele e per la sopravvivenza delle api. Tuttavia, l’“estraneità” attribuita all’eucalipto rispetto al suolo sardo sembra essere alla base di valutazioni che rendono la pianta e i gli organismi non umani ad essa legati sacrificabili per “il bene del pianeta”.

Giustizia ambientale e prospettive multispecie

La nozione di “giustizia ambientale” è estremamente complessa. Intanto perché, a prescindere dal contesto, quando si parla di “giustizia” è implicito che una qualche forma di “ingiustizia” sia stata perpetrata ai danni di qualcuno. Il dibattito attorno al concetto di “giustizia ambientale” si concentra sulla definizione di chi sia questo “qualcuno” che subisce un’ingiustizia e a cui viene riconosciuta la facoltà di rivendicare i propri diritti (Schlosberg 2007; Holifield, Chakraborty, Walker 2017). Anche quando ci si muove in contesti ambientali, la nozione di “giustizia” sembra essere plasmata su una nozione fortemente antropocentrica e individualistica che pone l’ambiente, o meglio tutto ciò che lo costituisce, in una posizione inferiore rispetto ai diritti individuali dell’essere umano (Woods 2017). Infatti, il concetto di giustizia è spesso legato a quello dei “diritti umani” che riconoscono quindi l’essere umano come soggetto che soffre per le ingiustizie perpetrate su di esso dalle azioni di altri esseri umani (Gearty 2010). La nozione di giustizia nasconde dunque una implicita parità tra esseri umani capaci di soffrire alla stessa maniera e di poter perpetrare le stesse ingiustizie su un altro suo simile. In altre parole, potenzialmente, un essere umano può essere al tempo stesso vittima e causa di ingiustizia rispetto a uno o più esseri umani.

Questa nozione è fortemente influenzata da posizioni antropocentriche costruite su una visione del rapporto tra umani e non umani basata su una netta distinzione tra i due gruppi e su una oggettificazione degli appartenenti al secondo. Anche nel contesto dei movimenti animalisti, l’idea per cui l’uccisione da parte di un essere vivente di un altro essere vivente per procacciarsi il cibo è considerata “naturale” quando si tratta di un predatore e di una preda ma viene concepita come “omicidio” se l’attore dell’uccisione è umano (Ogden, Hall, Tanita 2013, p. 9) è legata a una nozione ontologica che concepisce l’umano al di fuori del mondo “naturale” (Ingold 2000; Descola 2005; Haraway 2008).

Una concezione così antropocentrica applicata a contesti ambientali rende difficile individuare il soggetto a cui è rivolta la “giustizia” (Schlosberg 2007, p. 104). Alcuni studiosi ritengono che benché l’umanità con il suo agire distrugga la “natura” ciò non significa che questa possa essere considerata una vera e propria “vittima”. Questo perché la giustizia presuppone un certo grado di condivisione tra due soggetti posti sullo stesso piano dal punto di vista ontologico. Secondo questa lettura, gli esseri viventi appartenenti al mondo naturale non hanno la capacità di cooperare volontariamente e soprattutto sono incapaci di restituire giustizia a loro volta, capacità che invece è ben distinguibile nella specie umana (Barry citato in Schlosberg 2007, p. 105). Questa posizione è anche alla base del diritto di sfruttamento delle risorse naturali rivendicato dai paesi in via di sviluppo e contraddistingue le politiche di tutela dell’ambiente anche quando queste sono rivolte alle popolazioni indigene in cui la salvaguardia dell’“ambiente” è subordinata alla centralità delle comunità umane (Gearty 2010).

Per decenni queste tematiche sono state al centro del dibattito antropologico sulla dicotomia tra natura e cultura, ripreso recentemente nei contributi di Philippe Descola (2005), Donna Haraway (2008), Tim Ingold (2000), Eduardo Kohn (2013), Anna Tsing (2015) e Eduardo Viveiros de Castro (1998; 2004). Questi lavori hanno contribuito ad arricchire il dibattito emerso all’interno dell’etnografia multispecie (Kirksey, Helmreich 2010) attraverso cui si cerca di ripensare il rapporto umano/non umano mettendo in evidenza l’intricata rete di relazioni interspecie che si nasconde dietro qualsiasi pratica umana sull’ambiente e attraverso cui l’essere umano si fa tale (Haraway 2008; 2016).

Se da una parte la letteratura multispecie cerca di superare le forme di antropocentrismo ed etnocentrismo incorporate nel pensiero occidentale, queste riflessioni sembrano orientarsi verso un nuovo senso di responsabilità nei confronti delle specie non umane e delle future generazioni di esseri umani. Connesso a queste teorie è infatti il dibattito attorno alle nozioni di Antropocene, Capitalocene, Chtulucene, Omogeneocene etc. utilizzate per definire l’era geologica in cui ci troviamo e il ruolo della specie umana nel pianeta (Samways 2005; Haraway 2016; Moore 2016; Latour et al. 2018). Se, come fa notare Tim Ingold, la discussione sull’era geologica corrente rischia di cristallizzarsi meramente sul nome da attribuirgli, e per quanto il termine Antropocene susciti non pochi problemi (Latour et al. 2018, Tsing 2015, pp.19-20), bisogna tuttavia riconoscergli il pregio di aver attivato un dibattito tra ricercatori di diverse discipline.

Alla luce di questo dibattito, alcuni studiosi si sono interrogati sulla possibilità di ripensare il concetto di “giustizia ambientale” attraverso una prospettiva multispecie, includendo gli esseri non umani tra i soggetti che subiscono le ingiustizie (Schlosberg 2007; Holifield, Chakraborty, Walker 2017; Celemejer et al. 2020). A partire dalle riflessioni di Donna Haraway (2016) secondo cui non può esistere una giustizia “ambientale” senza includere i legami multispecie, gli autori della Critical Exchange (Celemejer et al. 2020) cercano di integrare l’approccio multispecie alle teorie sulla giustizia allo scopo di creare una nozione di giustizia ambientale capace di affrontare le conseguenze di cambiamenti climatici, gestione delle risorse naturali, transizione energetica e altri simili fenomeni.

A partire da questa letteratura, il contributo intende riflettere sui processi alla base dei conflitti prodotti dalla presenza dell’eucalipto in Sardegna e dal suo sfruttamento per la produzione di energia verde. A tal fine, verranno prese in esame diverse testimonianze raccolte con l’ausilio di mezzi audiovisivi e digitali, attraverso la partecipazione a eventi, escursioni, dibattiti offline e su Facebook, e incontri informali con diversi operatori che costituiscono la base etnografica prodotta nel corso di una ricerca sull’apicoltura in Sardegna. Inoltre, nel saggio utilizzerò la nozione di Capitalocene (Moore 2016, pp. 80-83) che a parer mio meglio si addice a far emergere gli intricati rapporti che legano le trasformazioni subite dal paesaggio del sud-ovest della Sardegna alla storia dello sfruttamento delle risorse naturali nel contesto del colonialismo e dello sviluppo del capitalismo come regime ecologico su scala globale.

Infine, cogliendo l’invito formulato dagli autori della Critical Exchange (Celemajer et al. 2020) e dalla curatrice di questo special focus, il contributo suggerisce come l’antropologia culturale possa offrire gli strumenti per ripensare il concetto di giustizia in termini più inclusivi, tenendo conto del rapporto che diverse specie costruiscono tra loro nell’ambiente o, per dirla con Kohn, per includere “il pensiero della foresta” nella nozione di giustizia ambientale.

La costruzione dell’alloctono in Sardegna

Prima di esaminare il caso studio è necessario soffermarsi ad analizzare il ruolo simbolico che la specie eucalipto ha assunto in Sardegna in rapporto alla costruzione dell’“alloctono”.

Delle numerose specie più o meno recentemente arrivate in Sardegna, l’eucalipto è forse una di quelle maggiormente “odiate”. Nel senso comune la pianta è considerata una idrofora, responsabile di aver distrutto gli ecosistemi originari sardi, deturpato l’armonia del paesaggio, e impoverito la fertilità dei suoli. Questa accezione negativa è legata al fatto che i primi esemplari arrivarono in Sardegna nella seconda metà del XIX secolo come parte del progetto del governo sabaudo di debellare la malaria e fu poi utilizzato un po’ ovunque per produrre legname poco pregiato e, negli anni ’60, per alimentare l’industria della carta.

I numerosi studi scientifici sull’impatto delle forestazioni di eucalipto sul suolo e sulle acque sotterranee (Mukund, Palanisami 2011; Sannitu 2006; Vacca et al. 2002) hanno contribuito ad alimentare la fama negativa della pianta in Sardegna e altrove in Europa (Arnáiz 2019). Particolarmente interessante è il caso della Galizia spagnola in cui da qualche anno si assiste all’emergere di vere e proprie squadre deseucaliptizadoras organizzate su gruppi di volontari il cui scopo è debellare l’eucalipto dal territorio e ripristinare il “patrimonio culturale” della montagna (Ansede 2018; Gonzáles 2019). Similmente alla Galizia anche in Sardegna l’odio riservato all’eucalipto non è riconducibile esclusivamente a motivazioni di tipo “scientifico” ma sembra piuttosto legato a certi modi di concepire il rapporto tra l’umano e la “natura”.

In Sardegna, la narrazione più comune attribuisce all’eucalipto il ruolo di “colonizzatore vegetale” che, sfruttando le opere di bonifica attivate durante la “colonizzazione italiana” dell’isola, avrebbe contribuito a distruggere l’identità del paesaggio sardo domesticando la sua “selvaggia autenticità”. L’associazione colonizzazione sabauda/eucalipto è tipica dei detrattori della pianta secondo cui le alte fronde degli alberi rappresenterebbero il simbolo della dominazione italiana inscritta nel paesaggio. Esemplificative in questo senso sono le parole di Gianni Barega, professionista che lavora nell’ambito di progetti di riqualificazione ambientale per le amministrazioni pubbliche, che mi ha accompagnato durante un’escursione nell’Iglesiente in cui la presenza dell’eucalipto, legata soprattutto alla vocazione mineraria del territorio, caratterizza il paesaggio.

I sardi parlano di su connotu3 senza sapere cosa sia! Ci hanno detto di avere una tradizione millenaria di pastori di pecore invece è una roba inventata dagli italiani. In Sardegna, il paesaggio è colonizzato ovunque, dappertutto si vedono le tracce della colonizzazione a cui i sardi non hanno posto resistenza. Se tu credi che quel paesaggio ti rappresenti allora non sai cosa vuol dire essere [davvero] sardo! (G. Barega, Iglesias, 22 agosto 2020).

Tracce di questa concezione sono riscontrabili in una buona parte di normative e documenti ufficiali emanati dalla Regione Autonoma della Sardegna (RAS) in tema di gestione ambientale, utilizzo delle risorse naturali e tutela del paesaggio. Tra questi è interessante prendere in esame il concept alla base dell’elaborazione del logo “Sardegna isola senza fine- Sardinia endless island”, utilizzato a partire dal 2015 per promuovere “l’identità visiva” della Sardegna.” In esso è facile individuare le tracce di una cultura visiva fondata sull’immagine di una Sardegna selvaggia e incontaminata come quella veicolata dalla produzione artistico-letteraria di pittori e viaggiatori stranieri tra ‘800 e ‘900 (Frongia 1995; Lawrence 2003), ma anche nei documentari di Fiorenzo Serra e nella produzione cinematografica di Marcello Serra (Floris, Girina 2016), e infine nelle teorie sulla “costante resistenziale sarda” elaborate dall’archeologo Giovanni Lilliu. Se per Marcello Serra (1958; 1961) le caratteristiche ambientali della Sardegna la rendevano “quasi un continente”, per Lilliu il paesaggio sardo è testimone dell’intreccio tra uomo e territorio (Lilliu 2002, pp. 426-427). È necessario sottolineare che non si tratta esclusivamente di una cultura visiva ma queste immagini rappresentano piuttosto l’esternalizzazione della percezione che i sardi hanno di sé stessi e della Sardegna. Emblematica in questo senso è la figura di Lilliu il quale individuava una relazione di continuità tra identità dei sardi e paesaggio della Sardegna fondando un modello a cui idealmente questi dovevano rifarsi per poter riacquisire la propria identità perduta (Cossu 2007). Per Lilliu, i sardi delle montagne costituivano gli autentici eredi della civiltà nuragica, capaci di resistere nei secoli ai vari tentativi di assimilazione e acculturazione (Ivi, pp. 228-31). Le teorie di Lilliu hanno contribuito a rafforzare un immaginario sedimentato nel tempo e veicolato attraverso le opere della cultura.

All’immagine di una Sardegna incontaminata e impenetrabile, autentico Eden popolato da creature fatate (le Janas) e da uomini forti capaci di dominare fermamente la natura selvaggia della terra, è legata la costruzione della nozione di autoctonia in opposizione a quella di alloctonia. In un contesto in cui l’identità è riprodotta da discorsi ossessivamente ripetuti a vari livelli (Bachis 2015, p. 696) e al di là delle policies comunitarie sulla tutela della biodiversità di un’isola mediterranea, la nozione di autoctonia è utilizzata dai sardi per definire quelle specie che sono “autenticamente” sarde, e che quindi hanno il diritto di stare su quel suolo, e le altre specie “straniere” percepite come “inquinanti” dell’integrità e armoniosità degli ecosistemi dell’isola.

In questa prospettiva, l’eliminazione dell’eucalipto assume un nuovo significato nelle politiche regionali, divenendo nel contempo un’operazione auspicabile per molti sardi. Sintomatico è il fatto che le normative regionali non prevedano alcuna limitazione al taglio dell’eucalipto, come invece accade con altre specie (Piano ambientale forestale regionale 2007). Nel nostro caso, la perdita di circa 200 ettari di eucalitteti a ridosso dell’area protetta del WWF è stata accolta da una parte degli abitanti del comune di Bau Arena come una pratica forestale necessaria e auspicabile tanto più che in alcuni casi le piante sono state sostituite da pannelli fotovoltaici.

L’eucalipto, l’ape e l’umano

La diffusione degli eucalitti nella piana del Cixerri, nel sud della Sardegna, è dovuta principalmente all’opera di Umberto Baveno il quale, successivamente alla Prima Guerra Mondiale, acquistò diverse centinaia di ettari di terreno e vi fondò un’azienda agricola tutt’oggi funzionante. Prima di lui, il conte Angelo Ceconi aveva utilizzato gli eucalitti per bonificare i terreni che ai primi del ‘900 erano in gran parte ancora inclusi nel sistema lagunare (Kitzmüller 2010, pp. 53-59, 63-76) e che oggi ricadono nell’area industriale di Cagliari. In un’epoca in cui il mondo contadino sardo era ancora organizzato in maniera frammentaria (Angioni 1976; Meloni, Farinella 2015, pp. 447-453), le aziende agricole di Ceconi e Baveno hanno rappresentato per molto tempo un unicum in Sardegna, sia in termini di estensione che dal punto di vista del modello agro-pastorale praticato. Particolarmente l’azienda Baveno, con i suoi circa mille ettari di estensione ha favorito lo sviluppo di pratiche estensive di pastorizia e introdotto sistemi innovativi per la coltivazione dell’olivo, del grano, del foraggio, e per la mandorlicoltura. Inizialmente, Baveno utilizzò gli eucalitti come frangivento per proteggere le coltivazioni e poi, a partire dalla seconda metà del ‘900, anche per la produzione di legna da ardere beneficiando degli incentivi comunitari per i rimboschimenti. La presenza diffusa degli eucalitti in quest’area la rendono una sorta di “laboratorio” per indagare gli effetti sul territorio di quello che Jason W. Moore definisce Capitalocene (2016) attraverso l’analisi delle interconnessioni tra processi globali e attività locali nello sfruttamento delle risorse naturali in Sardegna e altrove in un lasso di tempo di circa un secolo. È qui forse il caso di sottolineare che la diffusione delle diverse specie di eucalipto in Europa è legata al colonialismo verso l’Australia. In Sardegna questa pianta è stata inizialmente utilizzata dal governo sabaudo nel processo di domesticazione del territorio volto a bonificare l’isola dalla presenza della zanzara anofele, responsabile della diffusione della malaria. Successivamente, l’eucalipto si è mostrato una pianta particolarmente adatta nell’industria della carta e soprattutto della produzione di legna a basso costo. Oggi l’eucalipto è individuato come una pianta strategica nel contesto della transizione energetica intrapresa dall’Unione Europea con il new green deal, che in Sardegna si concretizza con i piani energetici regionali. Inoltre, la vicinanza con il polo industriale di Cagliari ha favorito l’emergere di una serie di problematiche che fanno di questa area – suo malgrado – un luogo al centro delle politiche regionali e nazionali di gestione territoriale. In questo senso, il terreno scelto appare particolarmente stimolante per la possibilità che offre di approfondire i rapporti tra “assemblaggi” interspecie prodotti attorno alla presenza di questo organismo alloctono.

Interessante in questo senso la vicenda che riguarda l’importazione accidentale della psilla Glycaspis brimblecombei, nota come Psilla lerp, un organismo che ci riporta di nuovo in Australia, luogo d’origine di questo organismo fitofago dell’eucalipto4. La diffusione della Psilla lerp sul territorio regionale ha comportato una vera e propria emergenza fitosanitaria e l’istituzione di un programma di monitoraggio del fenomeno (Programma triennale, 2012).

Nel 2010, l’apicoltore Oscar Melis, la cui famiglia possedeva diversi terreni già da metà del 1800 in quest’area e lui stesso da sempre vissuto nei pressi dell’azienda Baveno, osservò il rapido diffondersi di piccole capsule bianche sulle foglie di eucalipto della zona. Dopo un’attenta ricerca in rete, Oscar scoprì che si trattava della Psilla lerp che in tutto il mondo stava “uccidendo” gli eucalitti e conseguentemente distruggendo il pascolo per le api5, e così ne segnalò la presenza ai tecnici apistici regionali e all’allora proprietaria Margherita Baveno, figlia di Umberto fondatore dell’azienda. Non trovando il supporto aspettato da parte dei tecnici regionali, Oscar coinvolse il collega Giancarlo Bono e insieme avviarono una lunga opera di negoziazione con enti regionali e internazionali e con l’Università di Sassari volta all’importazione in Sardegna dell’antagonista naturale della Psilla lerp.

L’attività di negoziazione tra apicoltori, istituzioni regionali e mondo accademico ha portato al finanziamento di un programma triennale di monitoraggio dei fitopatogeni dell’eucalipto nell’isola e nel 2019 ha contribuito all’approvazione di un regolamento per l’introduzione di specie non autoctone ai fini del controllo biologico (Decreto Ministero dell’Ambiente 2020, art. 3). Nel frattempo, la diffusione della Psilla lerp ha causato una sensibile riduzione nella produzione del miele di eucalipto provocando una grossa crisi economica nel comparto apistico regionale (Floris et al. 2020, pp. 68-69). Oltre a rappresentare la parte più consistente della produzione annuale delle aziende apistiche sarde (tra il 60% e il 75% secondo le stime degli apicoltori), la fioritura, da fine giugno a metà agosto, garantisce il pascolo per le api nel periodo in cui non sono presenti altre fonti, permettendo di mantenere famiglie forti e sane in vista del raccolto autunnale.

Tuttavia, l’introduzione volontaria o accidentale di specie nocive per gli ecosistemi locali, è uno dei problemi provocati dall’azione umana che api (e apicoltori) devono affrontare ogni giorno accanto al cambiamento climatico, la gestione delle risorse naturali e lo sfruttamento del suolo. Da tempo gli apicoltori, anche attraverso le associazioni apistiche sarde, rivendicano il diritto di essere ascoltati sulle questioni riguardanti ambiente e territorio. Particolarmente impegnata in questo senso è l’associazione Ortus de Abis6 che in diverse occasioni di confronto con tecnici e politici regionali ha richiesto un maggiore impegno affinché le politiche di gestione del territorio vengano riformulate tenendo conto del ruolo ecosistemico che le api svolgono.

Nonostante ciò, quando nel 2018 in seguito agli accordi presi tra la RAS e le ditte di produzione di biomasse sono iniziati i tagli nell’azienda Baveno e in altre aree della Sardegna, il mondo apistico sardo ha assunto posizioni distinte e solo una parte si è mostrata fortemente preoccupata riguardo alla possibilità che gli accordi energetici potessero concretizzarsi in una ulteriore riduzione del pascolo di eucalipto. Da parte loro, le associazioni apistiche hanno mostrato opinioni contrastanti anche al loro interno. È necessario sottolineare che gli apicoltori sardi sono anch’essi influenzati dalla concezione della Sardegna “isola selvaggia” in cui l’eucalipto assume i caratteri di un “colonizzatore vegetale”. In questo senso, i rappresentati di Padenti7, il cui nome non a caso fa riferimento all’isola “senza fine”, “l’eucalipto è morto” e non merita alcuna attenzione. Più complessa è la posizione assunta dall’associazione Ortus de Abis in cui posizioni favorevoli allo sfruttamento economico dell’eucalipto convivono con concezioni radicalmente differenti che in alcuni casi portano alcuni membri a propendere per un percorso che porti al riconoscimento dell’identità giuridica delle piante, incluso l’eucalipto, sul modello della Déclaration des droits des arbres (2019) come strategia di salvaguardia delle api.

Le posizioni degli apicoltori sembrano riconducibili grossomodo a due modi di interpretare il paesaggio e la presenza dell’eucalipto in esso. Da un lato, quelli che hanno incorporato la visione di una terra incontaminata e selvaggia vedono l’eucalipto, in quanto pianta alloctona, come simbolo della subalternità storica della Sardegna all’Italia. Essi tendono a proiettare la propria identità di sardi e di apicoltori in un passato lontano, quando “l’antica terra sarda” non era ancora stata corrotta dai “colonizzatori” venuti dal mare (Meloni 2018a, pp. 11-12). Dall’altro, alcuni apicoltori mostrano di produrre una visione più articolata del rapporto tra il paesaggio sardo e le specie che lo compongono, costruita a partire dalle (auto)riflessioni nate nel “fare apicoltura.” Queste riflessioni inducono l’apicoltore a ripensare il proprio rapporto con l’ambiente e di attribuire un nuovo significato alle nozioni di autoctono e alloctono. È emblematico in questo senso il caso di Davide Aru, un militante indipendentista che durante un’intervista ha ammesso di aver cambiato opinione sull’eucalipto (che prima disprezzava come simbolo di dominazione) dopo aver iniziato a praticare apicoltura. In questo senso, sembrerebbe che le api, “costringendo” l’apicoltore a una costante relazione con una moltitudine di specie animali e vegetali dalle quali dipende la sopravvivenza stessa degli insetti, possano configurarsi come companion species degli apicoltori (Meloni 2018b, p. 64). È attraverso la relazione con le api che molti apicoltori sembrano sviluppare una concezione del territorio inteso come uno spazio co-costruito dall’incessante collaborazione tra esseri umani, animali e piante attraverso i secoli. In altre parole, l’ambiente si configura come la contact zone dell’apicoltore che “si fa” (becoming with), diventa umano nella relazione con l’“assemblaggio” di specie che lo abitano (Haraway 2008; Tsing 2015). Tracce di questa concezione sono riscontrabili anche nelle attività culturali promosse dall’associazione Ortus de Abis che già nella scelta del nome individua negli apicoltori di oggi i continuatori della cultura apistica sarda del 1300 (Meloni 2018a, pp. 12-14)

L’ape non è l’unica specie legata alla presenza dell’eucalipto e gli apicoltori non sono i soli ad articolare concezioni del rapporto umano/non umano che si discostano da quelle riconducibili alla dicotomia natura/cultura. Nel caso studio in esame, l’area è frequentata anche da numerosi cacciatori, agricoltori e operatori del corpo forestale ciascuno dei quali interpreta il taglio dei boschi anche in relazione al rapporto che ognuno di loro instaura con una specifica specie animale o vegetale.

Per il cacciatore Michele Murru la presenza dell’eucalipto sul territorio fin dai tempi di suo nonno è sufficiente a considerare la pianta “di qui”. Michele mi accompagna a visitare le “autostrade e le piccole stradine percorse da cinghiali e cervi nella campagna” che lui dimostra di conoscere intimamente. Mentre passeggiamo, mi accorgo che la sua conoscenza del territorio è mutuata attraverso la pratica della caccia. I saperi sul territorio e sul comportamento di cinghiali e cervi gli sono stati tramandati dal padre e dal nonno che prima di lui cacciavano in quest’area. Per tutta la durata della passeggiata ho la sensazione di muovermi in rapporto alla percezione che i cinghiali e i cervi hanno di noi e apprezzo il tentativo di Michele di insegnarmi ad assumere la prospettiva visiva e sensoriale di questi animali. In tutto ciò, l’eucalipto assume un ruolo fondamentale nell’offrire riparo o cibo alle diverse specie che co-abitano i boschi. E tuttavia, i tagli intensivi sembrano aver profondamente modificato le tracce di questa intricata rete di esseri viventi che compongono il territorio. Michele rimane colpito dal paesaggio desertico prodotto dalle macchine cippatrici e mi fa notare come alcune delle “autostrade” tra la macchia sembrano essere state abbandonate dai cinghiali. Per Michele e altri cacciatori della zona i tagli per la produzione di biomasse rappresentano solo l’ultima di una serie di attività umane sul territorio che hanno ridotto drasticamente le comunità di uccelli e modificato gli equilibri delle popolazioni di piccole prede ad esse legate.

Michele mi introduce all’amico Dario Desogus, operatore del corpo forestale “diverso dagli altri perché lui davvero conosce come funziona la campagna.” Dario è originario di Teulada ed è cresciuto in una famiglia di caprari. Ha svolto questa attività insieme al padre fino a quando è entrato a far parte del corpo forestale. Proprio a questa lunga esperienza con le capre Michele attribuisce l’abilità di Dario nel conoscere il “reale” funzionamento della campagna, “non come gli altri che non capiscono niente di come si muovono gli animali e a cosa serve lavorare le piante in un certo modo.” Nonostante l’avversione di Dario nei confronti dell’eucalipto, “pianta che già a vederla non si armonizza con il paesaggio sardo dove tutto ha un’altra misura, più piccola”, quei tagli in un’area prospicente una riserva naturale non sembrano per lui essere in linea con le normative di tutela del paesaggio e delle specie protette. L’entità e tipologia dei tagli lo lascia perplesso e gli fa supporre che dietro ai tagli esista una volontà non troppo velata di sradicare l’eucalipto da questa zona.

L’agricoltore Antonio Aru, che possiede un’azienda parzialmente inclusa entro la Zona di Protezione Speciale del Monte Arcosu, ritiene che la perdita repentina dell’area boschiva metterebbe a repentaglio la vita dei cervi, specie protetta dal parco, che verrebbero spinti dai germogli a uscire dall’area protetta e quindi si esporrebbero a bracconieri e altri pericoli.

Antonio è un mandorlicoltore biologico che ha imparato a conoscere il territorio in cui opera attraverso il suo rapporto con il padre, anch’esso agricoltore originario della zona di Tonara, paese famoso in Sardegna per la produzione di torrone alle mandorle, da cui si trasferì per impiantare l’azienda nella valle ai piedi del Monte Arcosu. È lui stesso a parlarmi delle sue difficoltà a interagire con tecnici regionali i quali dimostrerebbero di non possedere alcuna conoscenza sui delicati equilibri tra piante e animali all’interno dell’area protetta.

Benché l’eucalipto assuma un significato diverso nelle narrazioni di Antonio e Dario entrambi attribuiscono al carattere alloctono della pianta la motivazione principale che spiegherebbe il silenzio delle associazioni ambientaliste di fronte a quello che loro definiscono un “disastro di questa portata”.

Le visioni di Oscar, Michele, Antonio e Dario sono accomunate dal fatto che tutti quanti, seppure in maniera differente, intrattengono con il territorio un rapporto molto intimo e che il loro saperi ecologici sembrano essere in parte incorporati e tramandati nel rapporto con i genitori e i nonni. Particolarmente interessanti, in questo senso, sono Oscar e Michele, il primo che insieme ai terreni nella zona ha ereditato anche la conoscenza del territorio tramandatagli dai racconti dei nonni e dei genitori, il secondo figlio di cacciatori che “da sempre” avevano la gestione di caccia e raccolta di una parte di quei terreni.

In contrasto, l’interpretazione di Natalino Tuveri offre una concezione positiva dei tagli e dell’attività della centrale a biomasse che a differenza di altre strutture della zona industriale produce energia “pulita.” Pur mostrandosi particolarmente attento alla salute del territorio sardo e alle politiche di gestione “sostenibile” dell’ambiente, nelle varie conversazioni virtuali avvenute tramite il social network Facebook, Natalino sostiene che i tagli non producano alcun impatto sulla flora e fauna del territorio e che d’altra parte “le piante stanno già ricrescendo quindi non ci sono tutti questi problemi per gli apicoltori.” Formatosi in scienze naturali all’università di Cagliari, Natalino è impiegato specializzato nella centrale a biomasse. Attraverso Facebook è possibile notare che altri abitanti del paese di Bau Arena similmente a Natalino, ritengono che il consumo di suolo per la produzione di energia “verde”, sia essa da biomasse o per fotovoltaico, sia un modo per salvare la “natura” e il pianeta. Tuttavia, bisogna tenere presente che queste persone sono per la maggior parte impiegate nel settore terziario e che il loro rapporto con la “campagna” è generalmente ridotto alle escursioni domenicali nella riserva del Monte Arcosu.

Conclusioni

A partire da un’indagine etnografica sull’apicoltura, l’articolo si è concentrato sullo studio di un’area a sud-ovest della Sardegna il cui paesaggio attuale è il risultato delle interconnessioni tra fenomeni globali (colonialismo, sviluppo agrario e industriale, politiche di transizione ecologica) e dinamiche locali (bonifiche, migrazioni interne, mutamenti socioculturali, fragilità idrogeologica). In questo contesto, la diffusa presenza dell’eucalipto a partire dalla metà del 1800 si lega storicamente allo sviluppo di modelli agro-pastorali e, a partire dal secondo dopoguerra, all’impianto del polo industriale di Cagliari, entrambi elementi che ancora oggi determinano le modificazioni degli ecosistemi dell’area (Lai 2020, pp. 99-100). Recentemente, la messa in funzione di una centrale a biomasse nell’agglomerato industriale del capoluogo ha favorito delle pratiche forestali che hanno prodotto localmente una sensibile riduzione del patrimonio boschivo dell’area, con conseguenze dirette sulla vita delle diverse specie (inclusa quella umana) che avevano costruito le proprie comunità attorno alla presenza dell’eucalipto. In un’epoca in cui il dibattito sull’impatto delle attività umane sulla Terra sembra essersi diffuso ben oltre il mondo accademico, il caso studio offre la possibilità di indagare i conflitti prodotti localmente dallo sfruttamento di una pianta la cui importazione, diffusione, e utilizzo in Sardegna sono legati a processi economici e sociali che da circa un secolo hanno caratterizzato la storia di questa specie su scala globale.

L’improvvisa perdita di quello che potrebbe rappresentare un “polmone verde” dell’area metropolitana di Cagliari, ai piedi di una riserva naturale nazionale, capace di mitigare gli effetti negativi del polo industriale sulla qualità dell’aria e dell’ambiente non sembra aver suscitato preoccupazioni tra una parte di cittadini dei comuni circostanti di Bau Arena, Grogastu e Santa Lucia. Tale disinteresse da un lato sembra essere connesso a una concezione individualistica del rapporto con l’ambiente basata sul diritto del singolo di sfruttare a proprio vantaggio e senza alcun limite il territorio di cui è proprietario. La totalità dei boschi tagliati, infatti, ricade in terreni di proprietà privata non solo dell’azienda Baveno ma anche di piccoli proprietari che hanno progressivamente abbandonato le terre a uso agricolo con l’avanzare del polo industriale. Questo, infatti, ha prodotto un aumento dei costi a carico dei piccoli proprietari e attirato l’interesse di aziende impegnate nella produzione di energia verde.

Ciò che è importante sottolineare è che anche qui, analogamente a quanto discusso da Gearty sul rapporto tra diritti umani e tutela ambientale, il diritto dell’individuo di sfruttare economicamente il territorio, è considerato superiore rispetto a qualunque forma di tutela ambientale (Gearty 2010, p. 10). Come si è visto, questo diritto è rivendicato anche da alcuni membri della comunità di apicoltori, che benché manifestino una maggiore consapevolezza sulla sofferenza delle specie non umane e sui meccanismi di funzionamento degli “assemblaggi” che costituiscono la “foresta”, appaiono strettamente legati a concezioni del rapporto tra umani e non umani che collocano i primi in una posizione distinta e in una certa misura “distante” rispetto ai secondi. In altre parole, persino coloro che dall’eucalipto traggono gran parte del reddito annuale e che attraverso l’intimità che costruiscono con le api hanno accesso al “pensiero della foresta”, non sembrano declinare la sofferenza delle comunità di non umani prodotta dal taglio degli eucalitti in termini di (in)giustizia ambientale.

L’indagine etnografica ha mostrato come questo aspetto non sia slegato dal ruolo assunto dalla nozione di “identità” attribuita al paesaggio della Sardegna. In questo caso, infatti, l’identità sarda sembra funzionare come una sovrastruttura che fornisce ulteriori elementi per mercificare un essere vivente sulla base della sua “estraneità” al suolo sardo, rendendolo alloctono, e quindi attribuendogli una posizione subalterna rispetto alla “natura” che vale la pena salvare. La forma di continuità tra persone e ambiente veicolata e riprodotta dall’immagine della Sardegna come endless island presente nell’idea di appartenenza dei sardi — inclusi gli apicoltori — contribuisce a riprodurre una relazione tra sardi e paesaggio costruita su una percezione dell’ambiente che colloca l’essere umano al di fuori di tutto ciò che non è umano (si veda Ingold 2000).

In questa nozione del rapporto natura/cultura lo spazio per una qualche forma di giustizia ambientale viene ridotto dall’impossibilità di individuare negli alberi la capacità di mantenere una costante rete di relazioni e comunicazione con la flora e la fauna che costituiscono il suo lebenswelt (Celermajer et al. 2020, p. 484) e quindi di definire gli eucalitti (e in generale gli alberi) come esseri senzienti, ai quali riconoscere il diritto alla giustizia (Scholsberg 2007). Si potrebbe ipotizzare che l’ontologia di cui sono portatori gli attori sociali coinvolti nel caso studio, anche quando è mirata a tutelare la “natura” non produce gli strumenti per riconoscerli come “congiunti” e quindi simili gli esseri non umani, e quindi non prevede che questi siano esseri senzienti. La riserva del Monte Arcosu è connessa a questa visione e funziona come una “fortezza della conservazione” (Heatherington 2012): la sua vicinanza al luogo dei tagli è funzionale alla narrazione che le attività forestali eseguite al di fuori dell’area sono mirate a proteggere la “natura” (Celermajer et al. 2020, p. 489).

Inoltre, la scelta di individuare nella relazione binaria tra eucalipto e flora autoctona un rapporto che va a detrimento della seconda non tiene conto né delle “nuove” condizioni in cui le piante vivono (per esempio il cambiamento climatico e l’importazione costante di specie alloctone di insetti, uccelli, etc.), e neppure delle nuove reti di relazioni che si sono create tra eucalitti e organismi presenti che svolgono azioni ecosistemiche sul territorio. Tra queste, particolare rilievo rivestono quelle di insetti, funghi e vari invertebrati la cui azione sull’ambiente – a cui Bennett (2010) attribuisce una small agency – è invisibile all’occhio umano ma necessaria per il funzionamento dell’ecosistema (Tsing 2015); e poi ancora uccelli, piccoli mammiferi che comunque svolgono azioni di controllo biologico proprio delle specie importate.

Contrariamente a questa visione, il campo ha mostrato come il rapporto con alcuni companion species possa produrre concezioni diverse dell’identità sarda e delle nozioni di autoctono/alloctono. Interessante, in questo senso, notare come i piccoli proprietari manifestano una tendenza a opporre resistenza alla possibilità di ottenere ingenti guadagni attraverso la vendita dei propri terreni alle multinazionali che si occupano di fotovoltaico e di biomasse. In questo caso, il rifiuto a vendere è dovuto al fatto che i terreni in questione, per quanto improduttivi, fanno parte dell’eredità ricevuta per linea paterna o materna ovvero rappresentano il “versante più concreto e specifico” di su connotu (Zene 2005, p. 690). In altre parole, per queste persone, i terreni con gli eucalitti trasmessi per via ereditaria fanno parte della storia della propria famiglia d’origine (arereu) e rappresentano il mondo come “lo abbiamo conosciuto, come ci è stato tramandato.” Questa concezione è riscontrabile anche nelle posizioni di Oscar, Michele e Antonio e in quella parte di operatori che intrattengono con il territorio in cui operano un rapporto più intimo. Per questi, l’ingiustizia assume una duplice valenza: da una parte si configura come una perdita degli aspetti simbolici che costituiscono la base del loro senso di appartenenza a quei luoghi. In questo caso, l’eucalipto non è più percepito come estraneo al suolo sardo ma come elemento simbolico che testimonia l’impronta dell’attività degli antenati che attraverso il loro lavoro e i loro saperi hanno creato il paesaggio di oggi. Dall’altra, costituisce una violenza nei confronti dell’ambiente in quanto provoca la sofferenza dei diversi companion species a cui ciascuno è legato per mezzo delle diverse attività che operano su quel territorio.

Il contributo dimostra come la ricerca etnografica in chiave multispecie permetta di analizzare nel dettaglio i differenti modi di rapportarsi alla “natura” che sono alla base delle tensioni generate dalle politiche di gestione ambientale a livello locale e fa emergere quelle posizioni subalterne rispetto alle concezioni maistream del rapporto natura/cultura che tuttavia sono presenti anche in un contesto europeo come quello analizzato. La ricerca etnografica fornisce gli strumenti necessari per rileggere le pratiche forestali, di gestione ambientale e di sfruttamento delle risorse per la produzione di energia “verde” alla luce della valutazione intima e situata delle interconnessioni tra specie diverse piuttosto che formulare piani basati su connessioni binarie umano-singola specie.

In questo senso, il sapere prodotto dalla prospettiva multispecie offre degli spunti di riflessione interessanti per ricalibrare il concetto di giustizia ambientale in termini più inclusivi rispetto alla sofferenza delle specie non umane con cui co-abitiamo l’ambiente.

Foto 1. Paesaggio dopo i tagli”

Foto 2. Paesaggio dopo i tagli

Foto 3. Cataste di eucalipto prima della sbriciolatura

Foto 4. La città più vicina

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Pubblicato

2021-06-07

Fascicolo

Sezione

Special Focus