Essere (non) a casa
L’abitare distopico della fantascienza
DOI:
https://doi.org/10.14672/20242688Abstract
Cosa succede quando chiudendo la porta di casa non si allontana il pericolo, ma ci si sprofonda dentro? Didino in Essere senza casa(2020) delinea una crisi dell’abitare che si combatte su una serie di soglie, tra cui quella tra l’umano e la macchina e, nel farlo, parla del nostro presente, ma sfogliando racconti di una settantina di anni fa, la fantascienza sembra aver anticipato – come spesso accade – questo timore, proponendolo ai suoi lettori nei termini di distopia domestica. Case vive, case paranoidi il cui dovere di protezione si trasforma in ansia di autoprotezione. Ne The Veldt di Ray Bradbury (1950) e The Thousand Dreams of Stellavista (1962) di James Ballard la sensazione di unheimlich, del ‘non-a-casa’ esplode quando queste case intelligenti, progettate per proteggere, aiutare, intrattenere i proprietari si trasformano in un universo da incubo, minacciando l’esistenza stessa dei proprietari o dimostrandosi patetiche, quando si ritrovano sole, svuotate dai loro inquilini (R. Bradbury, There Will Come Soft Rains, 1950). Così, le quattro mura con cui ci circondano, non delimitano più il nostro spazio sicuro, ma la gabbia da cui vogliamo scappare.
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